ATTENZIONE!!!
Il contenuto di questa serie è riservato ad un pubblico adulto e non impressionabile.
Tutti gli episodi sono basati sul gioco da tavolo FIRETEAM ZERO di Michael Langlois e Christian Leonhard

Episodio 1 - Reclutamento

<<Hai mai sentito il modo di dire "puntate, mirate, fuoco"? Bhè, io sono quello che punta e gli altri fanno fuoco>>
Patrick "Cake" Wolinski







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Aveva il fiatone, le braccia tremanti poggiate su una cassa di legno e il capo chino riverso a fissare i resti mal digeriti della propria cena, ora sparsa su tutto il pavimento.
«Non si preoccupi, signor Wolinski», gli disse una voce maschile viziata da un elegante accento anglosassone. «Questo tipo di reazione è del tutto normale la prima volta»
«Normale?? Ma che diavolo va farneticando, professore!!». A stento, Patrick trattenne l'impulso di un nuovo conato.  «Qui dentro non c'è nulla di maledettamente normale!!», poi con una manica si pulì la bocca ancora impiastricciata di vomito.  «Dannazione,  ha visto come sono state ridotte quelle persone??», poi indicò il punto in cui il gruppo di inservienti stava pulendo il pavimento dai resti dei corpi dilaniati.
Con fare disinteressato, il professor Monroe sfilò il fazzoletto di velluto rosso che teneva nel taschino della giacca e lucidò le lenti circolari dei propri occhiali. «Me ne rendo conto, ma lei deve ammettere che questi sono i rischi del mestiere, soprattutto per un militare».
«Io non sono un dannatissimo militare!», rispose Patrick furioso.
«Sì, questo l'ho notato, ma come può ben vedere, neanche io indosso un'uniforme eppure, eccomi qui». L'uomo aprì le braccia mettendo in bella vista il lungo cappotto elegante, una sciarpa di seta color porpora e un paio di guanti di pelle. «Ci tengo a  rammentarle che lei, come me, fungerà esclusivamente da supporto alla squadra operativa. Non ho alcuna intenzione di toccare neanche uno di quegli aggeggi "sputafuoco" con cui potrei imbrattarmi di polvere da sparo».
 «Ma perché io?? Perché avete scelto proprio me? Dannazione!!», chiese Patrick al limite della disperazione.
«Conosce molto bene la risposta alla sua domanda, signor Wolinski. Tra i duecentottantasei candidati, lei è stato il solo ad aver superato i nostri test e ad esserne anche sopravvissuto. Le sue qualità psichiche sono a dir poco impressionanti. È stato capace di percepire quella creatura a più di cinquanta metri di distanza, è riuscito a sentirla nel suo io più recondito e questo per noi vuol dire che lei è la persona perfetta per scovarle con facilità. Ovviamente, una volta che le avrà stanate non si dovrà più preoccupare di nulla, ci penseranno questi rozzi individui ad abbatterle. Il mio compito, invece, sarà quello di esaminarle e studiarle, per poterne capire debolezze e vulnerabilità che allo stato attuale, mi duole ammetterlo, sono praticamente ignote».
Al solo pensiero di doversi trovare di fronte ad un'altra di quelle creature, Patrick fu scosso da un brivido di terrore. Gli sembrava  di vivere in un incubo.
«Mi ascolti, signor Wolinski», proseguì il professore con tono serioso. «Lei è libero di tornare a casa da sua figlia e cercare di dimenticare quello che ha visto qui oggi, ma sappia che senza il suo aiuto, questa squadra potrebbe non riuscire  nella sua impresa e, se fallissimo, gli Artefatti che hanno generato quell'abominio che ha appena visto all'opera, espanderanno la loro influenza fino al "Limite Zero", ovvero il giorno in cui avranno un potere a cui nessuna forza bellica potrà far fronte. Da quel momento, in un periodo di tempo stimato tra le sei e le otto settimane, ciò che conosciamo oggi del nostro pianeta non esisterà più».
«Ma per la miseria, è così che i nazisti intendono vincere la guerra?».
«Non sia sciocco!», ammonì il professore. «Se questa fosse un'arma nazista io e lei non staremo neanche qui a parlare. Le nostre fonti ci hanno altresì informato che la Wunder-Waffen sta indagando sulla questione e se la cosa dovesse diventare di dominio pubblico, i tedeschi potrebbero impossessarsene e la guerra avrebbe di certo un epilogo assai cruento. Motivo in più per affrettarci ad agire, non ne conviene?»
«Io... Io non credo di potercela fare». Patrick sentì ancora una volta l'impulso di vomitare.
«Mi creda, signor Wolinski, io la capisco molto bene. Ora la sua mente è profondamente turbata non solo da ciò che ha visto, ma anche dalla capacità che molte di quelle creature hanno nell'intaccare la percezione sensoriale delle loro prede. Ecco perché il comandante Maxine ha preteso un rapporto dettagliato da ognuno dei membri del team. Per capire fino a che punto siate usciti di senno». Poi l'uomo si aprì il cappotto, sbottonò la giacca ed infine la camicia, il tutto senza un motivo apparente. «Si ricordi, signor Wolinski, se vuole rimanere vivo,  è molto importante che mantenga sempre i nervi saldi e la mente lucida». Quindi mostrò l'addome nudo, dal cui interno qualcosa aprì lentamente un ampio squarcio. Ne fuoriuscì poi una bocca irta di zanne che si allungò con un scatto improvviso arrivando ad afferrare il collo di Patrick.




L'urlo strozzato con cui si alzò di sobbalzo dal letto, lo lasciò privo di fiato. L'aria sembrava non riuscire ad entrargli nei polmoni e il cuore gli martellava come una trivella nel petto. Gli ci volle qualche altro istante di apnea prima che la respirazione tornasse regolare e la vista si schiarisse. Fu allora che  Patrick si rese conto di essere ancora nell'angusta camera umida e polverosa che la "Divisione Zero" gli aveva assegnato.
Il letto singolo, su cui era sdraiato, cigolava rumorosamente ad ogni minimo movimento, mentre le lenzuola impregnate di sudore emanavano un rancido odore nauseabondo. Nell'angolo davanti a lui, era incassato un lavabo incrostato su cui pendeva un arrugginito rubinetto gocciolante. Di fronte all'unica finestra nella camera, dalla quale entrava una fastidiosa luce mattutina, era posizionato un tavolino di legno con i piedi talmente traforati dalle termiti che sembravano sul punto di potersi sgretolare da un momento all'altro.
Nel contemplare lo scenario decadente che lo circondava, Patrick si sentì ancor più stremato di quanto già non fosse.
Le oltre nove ore trascorse nella pancia di un "C-47 Dakota", imbrigliato come un salame su di un sellino scomodo ad ascoltare i dettagli di un'operazione alla quale non avrebbe mai voluto partecipare, avevano reso il volo Washington - Tunisi un'esperienza estenuante. A peggiorare la situazione, ci aveva pensato quel caldo asfissiante che lo aveva investito subito dopo aver aperto il portellone dell'aeromobile.
Per cercare di recuperare le forze, aveva azzardato l'ipotesi di un sonno ristoratore ma, da quel giorno, dormire si era rivelata un'impresa quasi impossibile e nelle poche volte in cui aveva la fortuna di cedere alla stanchezza, i suoi sogni lo catapultavano sempre in quel maledetto magazzino. L'unica differenza tra un incubo e l'altro era il modo cruento ma sempre diverso con cui veniva ucciso, costringendolo ad un brusco risveglio. Si alzò svogliatamente dal letto, ma rinunciò subito all'idea di darsi una rinfrescata  non appena vide la pozza di acqua stagnante raccolta nella tinozza del lavabo. Poi, vicino all'ingresso,  si accorse di un'elegante valigia rigida di pelle scura  che stonava enormemente col degrado della stanza. Sull'esterno era impressa la scritta "Remington". Sotto la maniglia, qualcuno aveva infilato un biglietto completamente bianco, fatta eccezione per l'eloquente effige stilizzata del profilo di un lupo.
Patrick emise un sospiro rassegnato. Afferrò la valigia e la poggiò sdraiandola sul tavolo, sperando che il legno reggesse quel peso che gli era costato quasi uno strappo alla schiena. Liberò poi i fermi e sollevò il lato superiore verso l'alto, rivelando la lucidissima macchina da scrivere custodita al suo interno. Il primo istinto fu quello di lanciare quel maledetto aggeggio "intrappola-dita" fuori dalla finestra, ma il comandante Hall gli aveva dato ordini precisi a riguardo e, dopo aver visto in azione quella donna, non aveva alcuna intenzione di disubbidirle.
L'uomo afferrò dei fogli ingialliti contenuti nella valigia e ne infilò uno sul retro del rullo, facendolo poi ruotare fino a far spuntare un sottile lembo di carta dal suo lato. Una volta spostata tutta a sinistra la posizione di scorrimento, si sforzò di riorganizzare i propri ricordi, ma l'immagine sbiadita che vide riflessa nel vetro della finestra lo bloccò all'istante. Era il volto di un uomo di quarant’anni dall’espressione spenta, con una selva di disordinati capelli corvini, la barba incolta e due occhi stanchi che rivelavano le lunghe notti insonni trascorse a rigirarsi nel letto. No, quella non era l’immagine che Patrick ricordava di sé stesso fino a qualche anno prima.
Spostò leggermente l'anta della finestra e con essa il volto deprimente che vi era ritratto, poi tornò a concentrarsi sui suoi maledettissimi doveri e iniziò a battere sui tasti.





Patrick "Cake" Wolinski
8 Luglio 1943
Tunisi

Non so se qualcuno leggerà mai queste parole e sinceramente, neanche mi interessa.
Non sono un militare e, Dio mi è testimone, non ho mai voluto esserlo. L'unico motivo per cui oggi mi trovo davanti ad una macchina da scrivere è per via di questa maledetta capacità che mi permette di percepire ogni cosa mi circondi, senza necessariamente vederla. Non so come sia possibile e non so perché questo sia capitato a me. So solo che da quando ho memoria mi è sempre bastato concentrarmi per avere in testa immagini o sensazioni di chi mi sta attorno.
Sono nato in un piccolo villaggio nella regione del "Malopolskie", un'aspra appendice montuosa nel Sud della Polonia e, per quanto utile possa sembrare, non ci ho mai fatto molto con questa capacità, dato che la mia vita è sempre stata scandita da dure giornate di lavoro per procurare cibo e legna alla mia famiglia con i quali sopravvivere nei rigidi mesi invernali.
Non era una vita facile, tantomeno comoda, ma era la mia vita e andava bene così. Almeno finché uno psicotico tedesco con uno spruzzo di baffi sotto alle narici ha deciso di voler estirpare dal mondo la razza ebraica come fosse erbaccia infetta. Isolati sulle montagne, non avevamo idea di ciò che stesse accadendo e, onestamente, neanche ce ne importava. Ma la nostra beata ignoranza non durò a lungo.
Quando gli uomini delle S.S. ci vennero a prendere, mio padre non prese affatto bene l'idea che qualcuno lo costringesse con la forza a lasciare la sua terra. Quindi, decise di conficcare la lama della sua ascia da taglialegna nel cranio del primo  tedesco che gli si avvicinò con fare minaccioso. Inorriditi e anche un po' spaventati dal gesto, gli altri soldati tirarono fuori le loro pistole e lo tempestarono di pallottole.
L'istinto mi portò a corrergli in soccorso, ma la mano preoccupata di mia moglie Karen fermò la mia irruenza. Il suo sguardo ricolmo di lacrime mi supplicava di non andare a morire e di pensare al bene della nostra unica figlia. Katia aveva solo sette anni quando vide trucidare suo nonno e non me la sentii di privarla anche del padre.
Trattenni a fatica la rabbia ma a farmi definitivamente desistere, fu lo sguardo severo di mia madre. Quella donna aveva appena perso l'uomo con cui aveva condiviso gran parte della sua vita, eppure non concesse neanche un cenno di emozione agli occhi spavaldi dei soldati che la portarono sul rimorchio di una camionetta. Io feci lo stesso, così come fecero anche mia moglie e mia figlia. Non sapevo dove ci stessero portando, ma ovunque fosse, l'unica cosa che volevo era poter rimanere insieme. Purtroppo, non potevo neanche immaginare quanto le mie speranze fossero illusorie.
Arrivati alla stazione di Zakopane, ci costrinsero a salire su di un treno stracarico di persone pressate come animali destinati al macello, tutti immersi in un tanfo nauseante di urina, feci, sudore e vomito.
Non so dire quanti giorni durò quel viaggio, ma quando le ante laterali si aprirono davanti alla stazione di Mauthausen, il freddo pungente che ci inondò fu tutt’altro che spiacevole. Purtroppo, mia madre non riuscì a godere di quel breve attimo di sollievo. Mi ero preoccupato di tenere Katia tra me e mia moglie Karen, ma avevo perso di vista mia madre. Era sempre stata una donna forte e determinata, ma i suoi sessant’anni di vita li aveva trascorsi tutti in ampi spazi e all’aria aperta. Sopportare quella tortura per così tanto tempo, andò oltre la sua resistenza. Vidi il suo cadavere gettato come uno vecchio straccio su un mucchio di altri corpi che avevano avuto lo stesso tragico destino, senza che io potessi neanche dirle addio. Una schiera di soldati armati di mitra ci stava esortando a seguire il corteo di persone che si incamminava lentamente verso un complesso di edifici sul cui tetto spuntavano lunghissime canne fumarie.
I tedeschi lo chiamavano “istituto di educazione sociale” e sarebbe servito ai cosiddetti “emarginati” per integrarsi nella società, sostenuti dall'ausilio di uno staff altamente qualificato. Questa era la storiella che propinavano ai giornali e alle radio, ma le torrette di guardia e la sorveglianza armata raccontavano tutt'altra verità.
Giunti all’ingresso della struttura, ci divisero in tre file: una per gli uomini, una per le donne e una per i bambini. Quello fu il momento in cui capii che non sarei più riuscito a tenere unito ciò che rimaneva della mia famiglia. Il primo soldato che provò a staccarmi da mia figlia ricevette un sonoro pugno in faccia, mentre al secondo rifilai una gomitata allo stomaco. Altri tre sopraggiunsero subito dopo, tempestandomi con una selva di manganellate che mi costrinsero a cedere la presa su Karen. Ciò che accadde dopo si svolse tutto molto in fretta, proprio mentre ero bloccato e stordito.
Karen non si arrese e si gettò contro il soldato che trascinava via nostra figlia per un braccio. Quello stesso uomo schiaffeggiò mia moglie con una tale violenza da farla cadere a terra. Poi le puntò la pistola alla nuca ed esplose un unico colpo, freddandola come fosse un animale rabbioso.



Per un istante, Patrick sentì di nuovo quel boato rimbombargli in testa. Si fermò, accorgendosi di non avere un respiro regolare. Stava fissando il foglio davanti a sé senza riuscire a muovere neanche un muscolo, proprio come quel maledetto giorno. Gli tornò in mente l'immagine di Katia che gridava con le braccia protese verso la propria madre riversa in una pozza di sangue, mentre un soldato tedesco la trascinata via per i capelli.
Il comandante Hall gli aveva ordinato di descrivere ogni emozione, ma Patrick non se la sentì di condividere quel dolore così privato ed intenso con degli sconosciuti analisti militari, quindi tenne quel triste ricordo per sé.
Ora, però, aveva bisogno di un po' d'aria.
Si alzò dalla sedia e spalancò la piccola finestra, ma al posto di una folata fresca di vento, ricevette un altro schiaffo di afa irrespirabile. Si diresse alla sacca che aveva gettato vicino al letto e la aprì. Rimescolando tra i pochi vestiti che gli erano stati concessi, trovò finalmente la borraccia che stava tanto cercando. Se ne scolò una buona metà in pochi secondi, riversandosi il resto sopra la testa. Anche se decisamente calda, quella poca acqua riuscì quantomeno a dargli un minimo di sollievo.
Tornato a sedersi davanti alla macchina da scrivere, chiuse gli occhi per un istante e si sforzò di riprendere a battere sui tasti senza pensare troppo.



Non so dire cosa accadde di preciso nei primi giorni trascorsi all'interno del campo di concentramento. Ricordo vagamente una sala piena di persone nude e urlanti, poi il getto glaciale di un sifone. Ricordo il taglio graffiante della lama arrugginita  che usarono per radermi barba e capelli. Ricordo la puzza di muffa che emanavano gli stracci che mi costrinsero ad indossare. Ricordo il bruciore quando mi marchiarono sei numeri sul braccio. 
Poi ricordo la fatica nel trasportare le pesanti lastre di metallo, i dolori alle mani dopo una giornata intera a spaccare pietre con il piccone e la fame irrefrenabile che giungeva ogni sera, quando l’unico pasto che avevamo per saziarci era composto da un trancio di pane rinsecchito e una mezza ciotola di acqua sporca. 
Nel frattempo non facevo che pensare a mia figlia. Non riuscivo a percepire dove l'avessero portata, neanche  se fosse ancora viva. Non sapevo nulla e nulla mi disse mai nessuno. Per non so quanto tempo trascinai avanti il mio corpo come fosse un guscio vuoto,  sporco e denutrito, indifferente alle atrocità che mi circondavano, con l'unica speranza che qualche tedesco irascibile o i morsi della fame stessa, ponessero fine al mio stato catatonico. Trascorsero così le settimane, forse anche i mesi.
Poi vennero le urla.
Stavo tornando nel mio dormitorio dopo una massacrante giornata di lavoro nella fornace. Ricordo i colori rosso-arancio del cielo all’imbrunire e l'odore di carbone sprigionato dai giganteschi comignoli, quando, tutt'a un tratto, un tremendo stridio riecheggiò nell'aria. Sentii in lontananza i comandi dettati a gran voce dagli ufficiali tedeschi, seguiti subito dopo da una serie di raffiche di mitra. Non appena mi voltai verso la confusione, vidi una folla agitata correre disperatamente nella mia direzione. Pensai dapprima che i tedeschi stessero razziando il campo, intenti finalmente ad ucciderci tutti. Poi mi accorsi che con l'avvicinarsi della folla, i colpi di mitra diminuivano, mentre quei versi stridenti aumentavano sempre di più. Percepii un terrore assoluto, ma non mossi un solo muscolo. Ero pronto ad accettare la mia fine, qualunque essa fosse. Poco prima che quella marea umana potesse travolgermi, il rombante frastuono di una flotta di aerei riecheggiò nel cielo, accompagnato da decine di fischi sibilanti. Prim’ancora che io potessi alzare la testa, una sequenza turbinante di esplosioni sconquassò la terra sotto ai miei piedi e infine, venne il buio. 
Durante il tempo che rimasi avvolto dalle tenebre, avvertii accanto a me una presenza inquietante, accorgendomi poi del fatto che quell'oscurità era dovuta ad uno stormo composto da centinaia di corvi che mi vorticavano attorno. In mezzo a quel frusciante battito di ali, udii chiaramente vibrare un tintinnio metallico, come se qualcuno avesse appena lanciato in aria una moneta. Non potrei dirlo con certezza, ma avrei giurato che la morte si fosse appena divertita a giocare a testa-o-croce con me, ma doveva aver scelto il lato sbagliato della moneta. 
Quando ripresi conoscenza, fui investito da un nauseante odore di carne bruciata. Non riuscivo a respirare bene, né a muovermi, tantomeno a vedere dove fossi. Rimasi quindi lì immobile, ad aspettare che l'asfissia rimediasse al mio colpo di fortuna. Poi una sensazione inaspettata mi si intrufolò prepotentemente in testa. 
Katia era viva.
Iniziai a farmi largo tra gli ostacoli con le esigue forze che mi rimanevano e quando finalmente trovai di nuovo la libertà, mi accorsi di essere circondato da un tappeto di corpi carbonizzati. Ancora oltre c'era solo morte e distruzione. 
Gli edifici erano stati ridotti ad un cumulo di macerie fumanti in cui erano incastrati centinaia di cadaveri sia di ebrei che di soldati tedeschi. Nessuno era stato risparmiato. Eppure la sensazione che mia figlia fosse ancora viva in mezzo a quel massacro si materializzò non appena la ritrovai tra decine di altri ragazzini che se ne stavano rannicchiati e tremanti in un edificio che era stato miracolosamente risparmiato dal bombardamento. Mi ci volle un po’ per riconoscerla tra tutti quei volti emaciati, con le teste rasate a zero e i vestiti completamente ricoperti dalla polvere ma, alla fine incontrai i suoi occhi, increduli quanto i miei di avermi ritrovato. Sfruttammo una delle mille aperture che si erano formate lungo le recinzioni esterne per uscire dal campo, trovando una strada poco trafficata nelle vicinanze. Con un po' di fortuna, riuscimmo a superare il confine austriaco per poi arrivare in Svizzera e, da lì, in Francia. Dal porto di Marsiglia ci imbarcammo clandestinamente a bordo di un vecchio mercantile, con destinazione: Stati Uniti d’America.




La traversata fu lunga e faticosa da sopportare rintanati in una umida stiva maleodorante ma, alla fine, l'America si rivelò essere davvero il paese delle grandi opportunità e delle grandi stranezze di cui tutti parlavano. Un mondo fuori dal mondo dove la guerra giungeva solo come un'eco lontana.
L'uomo che registrò i nostri nomi dopo lo sbarco, ci fece subito capire che Wolinski non sarebbe stato un cognome pronunciabile. Quindi si voltò in una direzione a caso e nel vedere un furgone che vendeva dolciumi, riportò sul foglio di fianco a dove c'era il mio nome, la parola "Cake". Il cognome di Katia ebbe la stessa sorte.
I primi tempi fui travolto dal caos di New York City tra il frastuono delle automobili e quei colossi di acciaio chiamati grattacieli, ma dopo un paio di settimane ci feci l'abitudine. Purtroppo però, Katia si ammalò di una tosse cupa e implacabile che ogni giorno andava sempre più peggiorando.
Per curare mia figlia avevo bisogno di denaro, purtroppo però, di gente disposta ad assumere clandestini non ce n'era molta. Mi arrangiai con un tavolino lungo il molo stuzzicando i passanti e dicendo loro cosa avevano in tasca, nel portafogli o addirittura l'incisione nella parte interna dell'orologio che portavano nel taschino. Quel semplice incipit mi consentiva di attirare la loro attenzione e iniziare un piccolo spettacolo ai limiti del surreale che poi veniva ripagato con qualche spicciolo di generosità. Non riuscivo certo a guadagnare chissà quanto, ma in poche settimane racimolai abbastanza denaro da poter affittare un piccolo sottoscala in periferia, anche se in condivisione con qualche topo invadente. In fondo, volevo solo che Katia stesse bene e che riuscisse, per quanto fosse possibile, a lasciare le tragedie che avevamo vissuto in un passato ormai lontano centinaia di chilometri.
Questo finché un giorno, due uomini in uniforme militare, si fermarono davanti al mio tavolino con una valigia in mano e l’espressione di chi non era affatto venuto per divertirsi. I due uomini non si presentarono con i gradi di ufficiali, anche se le mostrine cucite sulle spalline della giacca, l’aspetto composto e lo sguardo impassibile non mentivano. L’unica differenza che notai sulla loro uniforme rispetto ad altre che avevo già visto, era lo stemma del profilo stilizzato di un lupo  cucito sulla manica destra, poco sotto alla bandiera a stelle e strisce.
Mi chiesero con estrema cortesia se fossi io "Patrick Cake", il figlio di un commerciante polacco giunto in America per ampliare gli affari di famiglia. Era esattamente la storia che avevo raccontato al tizio di Liberty Island durante la mia registrazione dopo lo sbarco. Quindi la confermai in pieno, nonostante fosse inventata di sana pianta.
Entrambi non si scomposero di una virgola, mentre uno dei due poggiò la borsa che aveva in mano sul tavolino, chiedendomi se sapessi cosa ci fosse all’interno. La guardai per un attimo con fare perplesso, notando sull'esterno lo stesso lupo che i due soldati portavano sulla loro uniforme.
Scossi la testa, mentendo spudoratamente.
La verità era tutt'altra e non mi piacque affatto. Benché fosse chiusa, riuscii a vedere chiaramente l'interno della valigia, dove c'era una serie di fascicoli sulla cui copertina rigida era stato impresso un timbro che riportava la dicitura
[DIVISIONE ZERO]
Informazioni compartimentali riservate
Richiesta autorizzazione livello: EREBUS

Tra quei fogli era riassunto per grandi linee l'ultimo anno di Patrick Wolinski. C'era tutto, dall'arresto sulle montagne fino allo sbarco in America, ed infine, una nota conclusiva rimarcava anche il fatto che “il candidato sembrava evidenziare straordinarie capacità cognitive”.
Nonostante avessero palesemente intuito la mia menzogna, i due uomini rimasero impassibili. Mi consegnarono semplicemente un biglietto da visita su cui era scritto un orario poco al di sotto della solita immagine del lupo. Prima di andarsene, mi dissero che l'indomani sarebbero passati a prelevarmi, sempre che fossi stato d'accordo. Poi mi rassicurarono sul futuro di mia figlia e sul fatto che gli Stati Uniti d’America ci tenevano sempre a curarsi delle famiglie dei loro eroi di guerra. 
Se c'era una cosa che non avrei mai voluto fare era il soldato, ma avere l'opportunità di poter dare a Katia tutte le cure di cui aveva bisogno, mi convinse a rivedere la questione. Quindi il giorno dopo mi presentai all’ora esatta indicata sul biglietto.
L'auto che mi venne a prendere era una Ford dalla lucida carena scura e luccicanti cerchioni argentati. Venni fatto accomodare dai due soliti uomini sul sedile posteriore, dove uno di loro mi informò che per motivi di sicurezza dovevo essere bendato. Accettai con una certa riluttanza.
Pochi istanti dopo che un foulard nero mi occluse la vista, avvertii a malapena il freddo pungente di un ago che mi penetrava la spalla, poi non ricordo più nulla.


Quando rinvenni, mi ritrovai di fronte ad un uomo di mezz'età in camice bianco con una pelata lucente. Fu piuttosto sbrigativo nelle presentazioni, dichiarandosi semplicemente come responsabile alle risorse umane della "Divisione K". Il suo compito sarebbe stato quello di sottopormi ad alcuni test psico-attitudinali prima della prova finale. Ogni mia domanda venne rimandata senza altre spiegazioni. Una cosa decisamente fastidiosa.
Ero seduto all'interno di una stanza scura e fredda, con un una parete interamente ricoperta da uno specchio ed un'unica lampadina che penzolava dal soffitto illuminando un logoro tavolo di legno. Indosso avevo solo i miei pantaloni, mentre sul petto nudo,  alcuni assistenti mi stavano appiccicando svariate ventose collegate con dei fili ad alcune rumorose macchine piene di luci e strane linee ondulate. D'un tratto, il responsabile poggiò sul tavolo un mazzo di carte e ne dispose una decina davanti a me, tutte coperte. Quindi rimase in attesa.
Indovinai senza problemi seme e valore di ogni carta. Feci lo stesso con degli oggetti custoditi in piccole scatole di legno. Poi la prova si ripeté con dei contenitori di metallo via via sempre più grandi, ma l'esito non cambiò. Eppure, l'uomo che avevo davanti non si scompose di un millimetro. Mi sembrava di essere come un fenomeno da baraccone davanti ad un pubblico che già aveva assistito a quello spettacolo.
Dopo un'altra sequenza di indovinelli, mi stufai di quel ridicolo teatrino e dissi al responsabile una frase che non avrebbe dimenticato facilmente: <<Se vuole possiamo andare avanti così per tutta la giornata, ma il tizio dai capelli brizzolati e gli occhialetti tondi che è al di là di quello specchio, non farà altro se non segnare la spunta "esatto" per ognuna delle prove riportate sul suo taccuino>>.
Finalmente ottenni un'espressione esterrefatta. Subito dopo, una voce risuonò dall'interfono, informando tutti gli addetti ai lavori che il candidato era pronto.
I suoi assistenti mi fecero rivestire e mi condussero tramite un lungo corridoio davanti ad un portone di acciaio, sigillato con una quadrupla serratura a incassi laterali. Il luogo in cui accedemmo sembrava un magazzino senza finestre grande almeno la metà di un campo da football, dove le uniche fonti di illuminazione provenivano da una serie di sporadici lampadari che lasciavano parecchie zone d'ombra. Sul pavimento erano sparse un po' ovunque un gran numero di casse di legno delle più svariate dimensioni, da quella piccola come una valigia a quella immensa come un armadio a due ante.
Zigzagando tra le casse, arrivammo fino al centro della sala, dove una decina di uomini con abiti  militari, ascoltava le parole di una giovane donna dai lunghi capelli rossi ondulati e un viso incantevole ma deciso. Indossava una corta giacca marrone, pantaloni aderenti dello stesso colore e un paio di stivali di pelle, mentre sulla coscia destra era affibbiata una fondina con pistola. Fu lei a presentarmi a tutti come lo specialista della "Divisione-K", benché io non avessi la minima idea di cosa fosse uno specialista della Divisione-K. Incrociai lo sguardo degli altri  e in nessuno di loro percepì un grande entusiasmo nel vedermi lì. Sembravano tutti soldati piuttosto rilassati e spavaldi, ad eccezione di un tipo che se ne stava in disparte ed un altro inquietante individuo avvolto in un trench grigio, il cui cappuccio alzato fin sopra la testa nascondeva parzialmente un volto coperto da una maschera antigas. Il solo vederlo mi fece gelare il sangue, quindi finsi disinteresse e mi voltai ad ascoltare la donna.
Si presentò come il comandante Maxine Hall, aveva un fare autoritario e risoluto che mai mi era capitato di vedere in una donna. Il suo parlare non mostrava il minimo segno di esitazione, dubbio o timore e il primo soldato che mise alla prova quell'autorità con un risolino divertito, si trovò pochi istanti dopo con la schiena a terra e la canna di una "Colt 45" ficcata in bocca. Da quel momento non ci furono altri commenti.
Sistemata la giacca e ripresa la consueta posa impeccabile, il comandante ci spiegò poi cosa fosse la "Divisione Zero", ovvero un élite militare super-segreta che svolgeva  missioni operative in tutto il globo e che richiedeva ai suoi membri, selezionati scrupolosamente tra centinaia di candidati, di essere ufficialmente deceduti sul campo di battaglia. Richiesta confermata da alcuni fogli che ci mostrò, dove era stato stilato il nostro certificato di morte. Infine,  indicando una cassa che dal soffitto discendeva lentamente sorretta da quattro corde e una grossa catena, ci informò del fatto che lì dentro c'era il nostro  nuovo nemico, un nemico che avremmo dovuto neutralizzare.
Alzai gli occhi per guardare l'involucro di legno non più grande di una persona, poi rimasi folgorato, immobile e completamente pietrificato dal terrore.



Il respiro si fece corto, le mani iniziarono a tremare e un brivido di gelo corse lungo la schiena di Patrick che grondava sudore, ma non per il caldo. L'uomo guardò la macchina da scrivere che aveva davanti agli occhi e si rese conto che non sarebbe più riuscito a premere neanche un tasto. Era trascorso troppo poco tempo da quel maledetto giorno per consentirgli di riportare su carta gli avvenimenti che accaddero in quella stanza.
La gola reclamò un disperato bisogno di Vodka, ma la "Divisione-K" era stata inflessibile sul divieto assoluto di alcool prima di un'operazione. A quanto pareva, per uno "specialista psichico", la lucidità mentale sul campo di battaglia sembrava essere fondamentale per la riuscita della missione. Patrick guardò fuori dalla finestra, dove un tappeto di persone inginocchiate a terra si estendeva per tutta la piazza, mentre da un megafono riecheggiava il salmodiare concitato di una strana preghiera in arabo. Quell'immagine lo fece sentire ancor più lontano dalla sua piccola Katia. L'uomo sperò solo che lei stesse bene. 
Dannata "Divisione Zero"! 
Se avesse potuto tornare indietro nel tempo, avrebbe mandato tutti al diavolo, compreso il sergente Griffin e tutte le sue stramaledette missioni con livello di autorizzazione "Erebus". Ma ciò che avrebbe voluto evitare più di ogni altra cosa, era vedere il contenuto di quella cassa infernale.
Ci aveva provato, lo aveva detto e ripetuto a tutti di non farlo. Aveva perfino implorato il comandante Hall, prostrandosi quasi in ginocchio ai suoi piedi, ma lei aveva liquidato i suoi timori con un semplice «In questa stanza c'è tutto ciò di cui avete bisogno» prima di uscirne e sigillare ermeticamente il pesante portone di metallo. 
Quel ricordo sembrò riuscire ad aumentare ancora di più il caldo nella camera, tanto da far sentire Patrick completamente esausto. La giornata era stata dura e riversare la sua storia in quei fogli, lo aveva provato quanto una scalata in montagna. 
Si alzò dalla scrivania e andò ad affondare il proprio corpo stremato sul letto, sforzandosi di ignorare il brulicante sciamare di cimici che infestavano il materasso. Impose a sé stesso di non dormire. Doveva solo riuscire a riposare un po' gli occhi per almeno una mezz'ora, poi avrebbe ripreso la scrittura. Ma la fatica ebbe presto il sopravvento e prim'ancora che potesse accorgersene, era già sprofondato in un sonno inquieto.




«Dobbiamo andare via, adesso!!!» Gridò Patrick al circolo di soldati che si era radunato attorno alla cassa con le Colt-45 in mano.
«Piantala di frignare, novellino» gli aveva risposto un tizio con lo sguardo stizzito e l'atteggiamento baldanzoso «piuttosto, osserva come agiscono dei veri militari e cerca di imparare qualcosa» 
A quell'affermazione seguì una risata generale. 
Cercando il sostegno di qualcuno, Patrick si guardò attorno, ma le uniche due persone ad essere rimaste in disparte erano il tizio taciturno, che sembrava del tutto disinteressato alla questione, e l'inquietante individuo con la maschera antigas, a cui Patrick non si sarebbe mai azzardato di rivolgere neanche un cenno.
Poi, le corde che avevano calato la cassa vennero lasciate cadere dal soffitto e, infine, un ingranaggio ritirò verso l’alto la pesante catena centrale che staccò il pannello superiore di legno, tirando via con sé anche una gabbia di metallo che era agganciata ad esso dall'interno, lasciando così la creatura libera di agire.  
Di seguito ci fu solo silenzio.
«Vieni fuori "amico", nessuno vuole farti del male» il commento di un soldato fece esplodere ancora una volta l'ilarità dei suoi compagni. Poi le risatine vennero subito zittite da un assordante verso stridulo. Poco dopo, i pannelli di legno si squarciarono come se una bomba fosse esplosa dall'interno e la bestia orripilante che si mostrò, fu ancora peggiore di quanto la mente di Patrick gli avesse fatto presagire. 
Le sue sembianze erano quelle di un uomo inarcato vistosamente con la schiena all'indietro, dal cui stomaco fuoriusciva una protuberanza massiccia di quasi mezzo metro che terminava con un viscido bulbo senza occhi e una voragine irta di zanne sbavanti. Per bilanciare la posa innaturale della creatura, due scheletriche zampe aracnoidi ricoperte di aculei partivano dal petto dell’uomo e arrivavano fino a terra. Un arto oblungo la cui mano era costituita da tre affilatissimi artigli, spuntava alla base della protuberanza, mentre un altro molto simile aveva squarciato ciò che una volta era il braccio destro del soldato. La testa di quel povero sventurato penzolava a peso morto all'indietro quasi fosse un grottesco pendaglio, mentre i suoi due occhi vitrei e la bocca spalancata sembravano implorare un silenzioso grido di pietà.
Davanti a quell'immagine rivoltante, nessuno ebbe la capacità di muoversi, e quando le fauci della bestia si spalancarono per emettere nuovamente quello stridio disumano, il terrore fu totale. 
Poi iniziò il massacro.
Avvenne tutto così in fretta che Patrick non ebbe neanche la capacità di distinguere esattamente ciò che accadde.
D'un tratto, il corpo della creatura si irrigidì, sprigionando un'esplosione di aculei che investirono in pieno i soldati, facendoli cadere a terra tramortiti. Poi, la bestia si avventò sui loro corpi ancora doloranti, assalendoli con una serie convulsa di movimenti disarticolati. Le urla strazianti di quegli uomini mentre venivano dilaniati  rimbombarono sia nella sala, sia nella testa di Patrick, ormai certo di essere destinato ad un'orrenda morte tra le fauci di quella bestia. Furono solo i colpi di una pistola a scuoterlo dal suo stato di immoto terrore.
Ad aver fatto fuoco era stato quell'uomo distaccato e taciturno che, a pochi metri di distanza da lui, ora stava sparando con estrema fermezza e precisione. Ma per quanto ogni suo colpo andasse a segno, le pallottole si immergevano nelle carni butterate del mostro, senza causargli alcun fastidio apparente. Scoperto il suo audace assalitore dietro ad una cassa, la bestia partì all'assalto emettendo un nuovo urlo acuto. Il soldato continuò a sparare imperterrito e senza esitazioni, finché nel caricatore della sua pistola non ci furono più pallottole.
Quando ormai le sorti di quel coraggioso pistolero sembravano destinate al peggio, qualcosa di fulmineo si mosse tra le ombre come uno spiffero di vento. Improvvisamente, la creatura si trovò un pugnale di quasi mezzo metro conficcato nell'addome e una mano artigliata completamente recisa. La figura avvolta dalla cappa grigia era comparsa dal nulla e, armata di coltello dal manico a forma di tirapugni, stava fronteggiando da sola quella bestia rivoltante. Purtroppo però, per  quanto rapido e follemente coraggioso si  dimostrasse, anche i suoi affondi non sembravano sufficienti per abbatterla.
Frustrato dalla situazione, Patrick cercò di pensare ad un modo per essere di aiuto, poi vide il soldato rimasto a secco di pallottole aprire casualmente alcune casse... e fu allora che ricordò le parole del comandante Hall.
«In questa stanza c'è tutto ciò di cui avete bisogno»
Cercò di calmare il battito cardiaco e ritrovare un minimo di concentrazione, quindi passò in rassegna il più velocemente possibile i contenitori che aveva nelle vicinanze... ed infine trovò qualcosa di molto interessante.
Richiamò l'attenzione del soldato, proprio mentre questi cercava di spostare l'anta di una cassa che Patrick sapeva già essere vuota, quindi gliene indicò un'altra. L'uomo lo riguardò con espressione perplessa.
«Fallo e basta!!!» gridò Patrick senza troppe spiegazioni, anche perché la bestia aveva appena inferto una profonda ferita alla gamba del tizio mascherato, che probabilmente non avrebbe resistito ancora a lungo.
Fortunatamente, il soldato aprì la cassa che gli era stata indicata, immergendo poi le mani in un groviglio di paglia, dal quale tirò fuori un fucile Garand M1.
Nel frattempo, l'altro uomo era stato scaraventato a terra, senza più alcun pugnale in mano e quando la bestia balzò su di lui per inchiodarlo al pavimento con  l'arto acuminato che gli era rimasto, una pallottola calibro 50 investì in pieno la sua testa, facendola esplodere in mille pezzi melmosi. 
L'uomo in cappa si alzò da terra togliendosi alcuni rimasugli maleodoranti dalla maschera, senza mostrare il minimo segno di dolore per la gamba ferita. Poi, si volse a guardare il soldato che aveva aperto il fuoco.
«Non provarci mai più» minacciò con voce scura attutita dal respiratore.
«Sta' tranquillo, Ratto» replicò l'altro con il medesimo tono di sfida «se avessi voluto colpirti, ora le tue cervella sarebbero sparse per terra con quelle del mostro»
L'uomo mascherato ebbe un istante di esitazione. «La prossima volta stanne fuori, "Due Penny". Non mi serve il tuo...» 
La porta blindata si aprì di nuovo e il comandante Hall rientrò con un nutrito numero di persone. Di fianco a lei c'erano due militari e quel bizzarro uomo con i capelli brizzolati che Patrick aveva già visto dietro al muro specchiato, mentre più indietro, una schiera di assistenti si fiondarono a curare i due uomini feriti e a ripulire i macabri resti dei corpi sparsi in giro.
«Signori, complimenti» disse la donna senza mostrare alcun cenno di emozione «voi tre siete appena stati assoldati nella squadra speciale "Fireteam Zero". So che quello che è accaduto può avervi turbato non poco e mi aspetto da tutti voi un rapporto dettagliato a riguardo. Ora, lasciate che vi presenti gli altri membri.   Lui...» proseguì indicando un tizio con uno stecchino in bocca e la faccia coperta di fuliggine «è il nostro esperto di esplosivi e, seppur sembri difficile da credere, è anche l'ufficiale medico della squadra... Don Hymel» 
«Bhé che posso dire? Alcuni li smembro, mentre altri li ricucio. Dipende dall'uniforme che indossano, o da quante ne indossano» commentò con tono divertito il tizio chiamato in causa «e comunque, chiamatemi pure Sonny»
«Qui alla mia destra» aggiunse il comandante, indicando l'uomo con gli occhiali circolari che si guardava attorno mostrando un atteggiamento altezzoso  «c'è il professor Monroe, che fungerà da supporto tecnico durante le missioni, insieme al nostro specialista psichico, Patrick Cake»
«Infine» proseguì voltandosi con un gesto quasi stizzito verso l'ultimo soldato rimasto «lui è il sergente Griffin. Sarà il vostro comandante operativo sul campo»
L'uomo fece un passo avanti. Il suo volto era privo del benché minimo cenno di ruga e i capelli neri tagliati corti mostravano solo una lieve sfumatura di grigio alla base delle tempie. A dispetto di un'età tutt'altro che avanzata, palesava con fierezza i numerosi gradi cuciti sulla sua uniforme. «Molto bene, signori!» disse con tono severo «Ci tengo subito a precisare che la mattanza a cui avete preso parte non è che un banale assaggio di ciò che ci aspetta sul campo di battaglia. Se tutto questo non vi sembra usuale come metodo di selezione è perché, come avrete certamente notato, il nostro non è un nemico usuale. Questo reparto non esiste e non dovrà mai esistere agli occhi del mondo. Nella situazione di grande concitazione in cui siamo, una notizia del genere potrebbe scatenare il caos globale» l'uomo prese poi un fascicolo portogli da uno degli inservienti. «So che avete un mucchio di domande, ma tutte le informazioni vi verranno fornite a tempo debito. Ora che abbiamo anche il nostro specialista psichico, scelto dal distaccamento della "Divisione-K", inizieremo un training su ciò che ci attenderà e tra una settimana, partiremo  per la Tunisia, dove ci prepareremo per la nostra prima missione sul campo. Sarete istruiti in volo a riguardo» poi si voltò e riconsegnò il plico all'assistente «Ora riposatevi, domani vi aspetta una dura giornata. Sveglia alle ore zero-sei-zero-zero del mattino. Arrivederci, signori»     
Dopo quelle parole, Patrick si sentì ancora più confuso e terrorizzato di quanto già non fosse. Gli sembrava di vivere in un incubo surreale, dal quale non riusciva a svegliarsi. Il panico gli si avvinghiò attorno allo stomaco, a tal punto da costringerlo ad appoggiarsi ad una cassa e riversare sul pavimento tutta l'angoscia che aveva dentro, assieme ai resti della sua cena.
«Non si preoccupi, signor Wolinski» gli disse con tono spocchioso il professore Monroe «questo tipo di reazione è del tutto normale la prima volta»




Patrick si svegliò di soprassalto, sbarrando gli occhi. Era ancora nella sua lurida stanza, sudato e stanco anche più di prima, ma almeno era riuscito a risparmiarsi il macabro finale di quel maledetto sogno. Purtroppo, la macchina da scrivere sul tavolino sembrava attendere una conclusione del rapporto lasciato incompleto. 
Ora però, Patrick aveva bisogno di riposo, non di rimettersi a battere sui tasti. Di lì a poche ore avrebbe dovuto prendere un altro aereo, da cui si sarebbe dovuto paracadutare in un villaggio sperduto della Sicilia.  Nonostante fosse diretto in pieno territorio nemico, non erano i fascisti la sua maggior preoccupazione, né il volo completamente in notturna, bensì quelle immonde creature a cui lui, assieme agli altri membri della Fireteam Zero, avrebbero dovuto dare la caccia.



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  1. Ho letto il pezzo tutto d'un fiato. Bravi.
    Solo una cosa. Secondo me c'è un errore nella prima parte di lettera, perchè subito dite che Karen è la moglie e Katia è la figlia. Poi però alla fine dello stesso pezzo di lettera, dite che è Katia ad andare contro al soldato che stava trascinando la figlia.
    Non si capisce...o forse è solo un errore di nomi.

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    1. Grazie Gira, sono contento che l'episodio ti sia piaciuto e ti ringrazio anche per averci fatto notare la svista (subito corretta). È bello sapere di avere lettori attenti ai dettagli. Mi raccomando, segui anche i prossimi episodi... e non scordare di iscriverti o mettere "like" alla nostra pagina Facebook.

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  2. Ottimo racconto! Molto coinvolgente e ben scritto. Riesce ad immergerti esattamente nell'atmosfera del gioco. Sono ansioso di leggere il seguito.

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    1. Grazie Andrea, il parere positivo di chi conosce il gioco vale DOPPIO! Speriamo di sapere la tua opinione anche per gli episodi futuri.

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